Veneto. Cisl e Cgil Belluno: intervento unitario su Acc-Wanbao

Pubblicato il 8 Dic, 2019

Belluno, 8 dicembre 2019 – “La crisi ACC-Wanbao porta in chiaro la profonda fragilità del sistema industriale della provincia di Belluno. Gli ultimi due anni sono trascorsi nel decantare quando repentina fosse stata la ripresa occupazionale in tutto il Veneto e anche nella nostra provincia, con un unico piccolo particolare, che da noi non si era ancora raggiunto lo stesso numero di occupati equivalenti a quelli del 2008, solamente perché il veloce trend dello spopolamento lasciava senza lavoratori le stesse aziende. Inoltre, l’occupazione raggiunta, non equivale allo stesso monte orario medio di 10 anni fa poiché vi è più precarietà e utilizzo di orari ridotti.
Due erano le notizie che più colpivano, da una parte le dichiarazioni di grandi e medi Gruppi industriali che lanciavano piani di sviluppo futuri, immaginando numeri importanti di nuovi posti di lavoro, e dall’altro come i processi di cambiamento, la digitalizzazione, industria 4.0 richiedessero nuove professionalità che nel mercato del lavoro interno al bellunese sostanzialmente mancavano.
Si aggiunga che la montagna, specie se immersa in un percorso di invecchiamento e spopolamento dei suoi abitanti, risulta essere poco attraente e attrattiva per i giovani, specie se laureati e lanciati verso percorsi di carriera, tanto da porre interrogativi in quelle aziende che dichiarano potenzialità di investimento; mancano figure professionali indispensabili a generare innovazione e sviluppo di nuove attività.
Altri indicatori ci erano però chiari, analizzati spesso e volentieri solo dalle Organizzazioni Sindacali, ma mai collegati all’intero panorama evolutivo del sistema socio-economico bellunese.
La stragrande maggioranza delle assunzioni è anche calibrato sulla mansione “generica” del lavoro, in cui la componente “formazione”, in particolare quella continua con cui un operaio si istruisce e si collega con il mutamento dei sistemi produttivi, è ad oggi completamente assente. Al contrario sono aumentate le assunzioni Part-time, sempre più spesso indotte dalle esigenze aziendali di flessibilità e non da una scelta di vita. Il risultato lo ha pagato la collettività: minori orari equivale a minori salari, meno ricchezza nel territorio, meno vita personale, famigliare, sociale equivale a impoverire la comunità. Le assunzioni precarie, come d’altronde in tutta Italia, hanno impoverito anche le aziende stesse, perché senza processi di stabilizzazione non esiste crescita professionale; nemmeno il Decreto Dignità è servito ad invertire in trend, ma piuttosto la contrattazione aziendale che ha tentato di cambiare questo indirizzo decennale.
Abbiamo risolto le crisi pesanti che si erano presentate, patito una lunga serie di esuberi, per fortuna molti dei quali accompagnati alla pensione, utilizzato gli ammortizzatori di legge, in tre casi la continuità produttiva ed occupazionale è stata permessa grazie alla rinuncia di diritti e salario dei lavoratori, magari conseguito negli anni con lunghe e faticose contrattazioni aziendali. Uno di questi casi si chiama proprio ACC-Wanbao.
Ora constatiamo che questo non si è tramutato in una ripresa vera; in particolare per ACC, l’aver venduto uno stabilimento strategico e non aver verificato l’attuazione del piano di sviluppo, promesso e non agito da Wanbao, ci lascia in una angosciosa situazione. Chiudere definitivamente, non significa solo lasciare a casa 295 lavoratori: si rischia l’impasse della fornitura verso altri stabilimenti, Electrolux di Susegana in primis, dove si investono 130 milioni di euro per il futuro produttivo, significa consegnare le stesse multinazionali dell’elettrodomestico europee nelle mani del mercato cinese per avere compressori con cui assemblare i frigoriferi. Tutto questo mentre gli stessi proprietari cinesi di Wanbao acquistano i porti veneti su cui veicolare le loro esportazioni.
Anche per questo serve il nostro contributo di azione ed iniziativa, di sciopero come stanno facendo i metalmeccanici bellunesi, per imprimere nel Governo italiano l’attenzione dovuta e necessaria per garantire la vendita credibile dello stabilimento, farla condurre da chi lo vuol fare seriamente e non a parole e poi, nella fase di continuità lavorativa, porre le basi per creare nuovo prodotto e garanzie produttive.
Non è solo quindi un problema di come ricercare nuove maestranze per questa provincia, serve soprattutto capire se esistono realmente le intenzioni, che in economia si chiamano investimenti e programmazione, per conservarne un vero indirizzo industriale. Senza di questo torneremo al periodo prima del Vajont.
Perché la visione complessiva dell’industria bellunese non è chiara; come ACC- Wanbao anche altri grandi gruppi sono a guida straniera, nulla di male se non fosse che difficilmente conosciamo e governiamo qui i loro piani di investimento e spesso i governi, siano essi regionali o nazionali, non riescono a far applicare gli stessi accordi che sottoscrivono con questi colossi; ACC- Wanbao potrebbe infatti essere accostata al caso ILVA di Taranto.
Manca, orami da tanti anni, un vero e chiaro indirizzo industriale nel Paese (e crediamo anche nella stessa Regione Veneto), si sono tamponate le falle di centinaia di crisi, ma non si è progettato un moderno sistema industriale. Eppure contributi a pioggia ne sono arrivati (piano Calenda) ma gli investimenti su settori d’avanguardia, sono sempre in enorme ritardo.
Allora è giusto collocare la manifestazione per ACC- Wanbao nella giornata del 10 dicembre, nel momento scelto da CGIL, CISL, UIL per manifestare e chiedere al governo di farsi primattore nel rilancio dell’economia, con investimenti pubblici, non delegando quindi al solo privato l’azione in economia, per cogliere direttamente la sfida alla modernizzazione del sistema industriale, come d’altronde stanno facendo altri stati europei.
A maggior ragione è giusto protestare e manifestare a Belluno, vicini ai lavoratori ACC- Wanbao, perché l’interesse della politica non può essere rivolto solo ai grandi casi nazionali (vedi ILVA), ma piuttosto perché abbiamo una fragilità socio-economica così precaria che la chiusura di uno stabilimento inverte il segno del nostro benessere collettivo, figuriamoci se i casi di crisi si sommassero”.

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