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Venezuela, un paese a rischio guerra civile. Il sostegno della Cisl ai sindacati venezuelani

Pubblicato il 1 Set, 2017

Un’analisi a cura del Dipartimento internazionale della Cisl  sulla crisi in Venezuela e sulle responsabilità del Governo Maduro.

Settembre 2017 – La presenza di una numerosa comunità italiana, attratta da un paese che nel secolo scorso avvio’ lo sfruttamento di immense risorse petrolifere convertendosi in una delle mete più ambite dei processi migratori dall’Europa, è fra le ragioni che sono a monte del grande interesse della Cisl nei confronti del Venezuela. Un paese affascinante anche se ricco di contraddizioni, dove i mondi vitali della cultura, delle scienze, le realtà accademiche si distinguevano da tutti gli altri paesi del’America Latina: ecco il paese che negli anni ‘90, quando si intensifica l’attivita di relazioni internazionali del nostro Sindacato ci siamo trovati davanti. Eppure un paese dove sedimentava un cancro, quello della sperequazione sociale. Troppe ricchezze e pochissime volontà e capacità di gestire politiche redistributive: solo chi riusciva ad entrare nel cerchio concentrico più vicino alle realtà dei settori estrattivi, di sfruttamento, raffinazione, nonché lo sterminato “indotto” delle risorse del petrolio, entrava in una sfera di ricchezza (spesso esagerata), chi rimaneva fuori era condannato alla marginalità, alla miseria, all’esclusione. Purtroppo anche il Sindacato venezuelano in quegli anni, rappresentando anche i diritti di lavoratori del settore più importante dell’economia, partecipava a questa giostra di privilegi: gruppi dirigenti che non riuscivano ad opporsi a sperequazioni insopportabili, apparivano complici, davanti ai settori più marginali del mondo del lavoro, di una situazione di ineguaglianza generalizzata e non potettero sottrarsi alle critiche da parte della comunità sindacale internazionale.

Il “Caracazo”, nel febbraio del 1989, quando dai “barrios pobres” di case di lamiera che circondano il centro ricco e sfavillante di Caracas, scesero migliaia di “”descamisados” che assalirono i negozi di beni di prima necessità ma anche le vetrine che esponevano beni di lusso, si concluse con un bagno di sangue, con l’esercito che uccise oltre duemila persone.
Nell’esercito c’e sempre stato l’equilibrio (precario) per decidere i destini del Venezuela degli ultimi trenta anni: un primo tentativo di “golpe” nel 1992, guidato dal giovane tenente Hugo Chavez, ispirato da idee vagamente socialisteggianti, fu sventato. Chavez fu arrestato ma presto ebbe un condono di pena dal Presidente Carlos Andres Perez. Nel 1998 Chavez si presenta invece alle elezioni ufficiali e vince clamorosamente. La storia recente del Venezuela è profondamente caratterizzata dalla vicenda politica e umana di questo “caudillo” fuori tempo massimo. Osservato con distacco e superficialità all’inizio da una opinione pubblica venezuelana non priva di strumenti e riferimenti culturali capaci di cogliere la possibile deriva del paese, Chavez lancia una “rivoluzione post ideologica” rimpinzando invece di valori e icone “ideologiche” tutta la struttura del paese: esercito”bolivariano”, gioventù “bolivariana”, donne “bolivariane”, camice rosse con tutto l’armamentario di parate, esibizioni di piazza, organizzazione di ogni settore con caratteri di malcelato “squadrismo”, decisamente “fuori” dalla storia che questi substrati culturali aveva già superato (e condannato) da più di mezzo secolo. Ma Chavez ottenne un grande consenso elettorale, perché convinse al voto tutti quei settori che erano stati per anni esclusi dalla partecipazione. I tanti poveri del Venezuela finalmente avevano il loro campione, quello che avrebbe riscattato anni di umiliazioni e miseria. Confortato dai consensi elettorali, che pur sotto il controllo di osservatori internazionali, continuavano a legittimare il caudillo, Chavez attacca l’opposizione, che si frantuma per anni nell’incapacità di proposta alternativa e letteralmente “annienta” tutti i settori della società civile che non si adeguano al nuovo corso. Il Sindacato è delegittimato, solo alcune formazioni “bolivariane” vengono riconosciute, ma il sistema di negoziazione collettiva è cancellato. A nulla valgono le reazioni della comunità internazionale, dell’Organizzazione internazionale del lavoro: durante una missione del Sindacato internazionale e dell’Oil, di cui facevamo parte come Cisl, che rilevava contraddizioni nel rispetto di Convenzioni OIL pur ratificate dal governo, l’allora deputato Nicolas Maduro fece votare dal Parlamento la sanzione di “persona non gradita” nei nostri confronti, un passo prima della espulsione dal paese.
Ma il giudizio su Chavez e sul “chavismo”, come per tutte le questioni storiche che riguardano il continente latinoamericano, deve essere più articolato, le categorie del “tutto bene/tutto male” devono essere correttamente messe da parte.
Chavez avvia programmi di distribuzione del reddito (grazie al controllo dell’immensa ricchezza proveniente dal settore petrolifero), ma soprattutto avvia programmi di profilassi, vaccinazioni, educazione di base, nelle grandi periferie ignorate del paese, nei villaggi delle campagne isolati ed esclusi, accendendo tante speranze e guadagnando consensi anche nell’opinione pubblica internazionale. Ma la critica che lo accompagna, più volte espressa nel corso degli anni dalle pagine di Conquiste del Lavoro, è quella di non aver saputo accompagnare i grandi programmi di distribuzione del reddito con riforme strutturali dell’economia, capaci di sostenere la domanda, rilanciare i consumi, sviluppare circuiti virtuosi di investimenti e di politiche industriali in grado di creare occupazione (come negli stessi anni invece riusciva a fare il Presidente del Brasile Lula, più volte impropriamente paragonato ed accomunato a Chavez, che con i programmi Fame zero o Bolsa Familia, più interventi strutturali nell’economia, con un aumento nel decennio di governo di oltre il 90 % della contrattazione collettiva, vero lievito dello sviluppo, creò un vero miracolo con l’uscita di oltre 80 milioni di persone dalla soglia della povertà).
Nel 2013 due eventi modificano radicalmente la situazione del Venezuela: muore per un cancro il Presidente Chavez, che sarà sostituito da Nicolas Maduro, imparagonabile per cultura politica, capacità di governo e capacità di relazioni internazionali al Presidente scomparso, e crolla il prezzo del petrolio nei mercati internazionali, cosa che farà sbriciolare come un castello di carta tutto l’impianto del sistema economico “chavista”. La crisi economica porta all’impoverimento generale del paese, fino addirittura a carenze di beni primari, di alimenti e medicine, che generano risentimenti, proteste ma finalmente anche ricompattamento dell’opposizione politica.

A dicembre 2015 le elezioni parlamentari riconsegnano all’opposizione la maggioranza, con più dei due terzi dei voti: da quel momento il governo Maduro inanellerà una serie di errori politici ed assumerà una serie di decisioni che rendono evidente davanti alla comunità internazionale la deriva autoritaria. Il sistema del paese è “presidenzalista”, non è la prima volta che bisogna attrezzarsi alla “convivenza politica”, già ci sono stati casi come nel Cile di Pinochet, dopo la sconfitta nel referendum, negli stessi Stati Uniti il Presidente deve spesso governare con una maggioranza contraria nel Congresso. Ma Maduro sceglie di non riconoscere il Parlamento eletto, prova più volte ad impedirne le riunioni, non permette le elezioni dei Governatori, che avrebbero dovuto tenersi entro dicembre 2016, non riconosce le firme raccolte per la convocazione di referendum revocatorio per la Presidenza, continua a tenere in prigione i maggiori leaders dell’opposizione. Nella sua linea dura, che diventa vera e propria deriva dittatoriale, Maduro nomina nuovi membri del Tribunale supremo di Giustizia, con magistrati senza i requisiti richiesti dalla legge, fa sospendere facoltà e poteri dell’Assemblea nazionale dal Tribunale. Quando viene impedito da gruppi paramilitari ai parlamentari di poter accedere all’Assemblea cominciano forti proteste della popolazione, già stremata dalla crisi economica durissima, e negli ultimi quattro mesi di quest’anno più di 150 persone restano uccise solo perché partecipavano a manifestazioni.
Le manifestazioni sono pacifiche ma alcuni estremisti, legati a settori imprenditoriali che fanno riferimento all’opposizione, si macchiano di alcuni delitti: la condanna dell’opinione pubblica internazionale anche rispetto a queste violenze è netta, ma non può non attribuire la totale responsabilità della situazione e degli eccidi al governo di Maduro.
Il 30 luglio, senza rispetto delle regole (secondo la Costituzione vigente avrebbe dovuto esserci un referendum consultivo), e sempre al fine di aggirare la sconfitta delle elezioni parlamentari del 2015, il Presidente Maduro convoca una nuova Costituente: contrariamente ai principi della rappresentazione proporzionale, membri dei Municipi rurali con scarsa popolazione, sono equiparati ai membri delle aree urbane, dove maggiore è l’opposizione democratica, membri espressi per settori di fatto tengono fuori circa 5 milioni di cittadini dalla possibile rappresentanza. In definitiva, l’elezione della Costituente si trasforma in una sorta di elezione “interna” al PSUV, il partito di Governo, che ha ora poteri illimitati.
A nulla sono valse le iniziative diplomatiche internazionali (dall’Organizzazione degli Stati Americani OSA alla UE, da iniziative dirette di paesi come Italia e Spagna alla forte attività diplomatica del Vaticano) per far recedere Maduro dall’iniziativa della convocazione della Costituente, richiesto come gesto di distensione per superare la pesante conflittualità politica del paese.
La prima decisione della Costituente appena eletta (che secondo Maduro è plenipotenziaria e sovracostituzionale, con supremazia assoluta su tutti gli altri poteri), è stata quella della destituzione del Procuratore Generale della Repubblica Luisa Ortega Diaz.
Tutto è ora in fibrillazione, non sappiamo come si organizzerà l’opposizione democratica ne’ che fine farà l’imponente iniziativa diplomatica internazionale dispiegata fino ad oggi, che ha lasciato il campo soltanto alle minacce di intervento militare di Donald Trump, cui non può essere concessa la patente di campione dei diritti umani nello scacchiere internazionale da questa strana congiuntura. Bisogna dire che, mentre la sinistra europea tranne sparute eccezioni non si fa più incantare da anni da queste suggestioni latinoamericane, nel subcontinente americano invece le sinistre sono ancora estremamente indulgenti nei confronti di ogni leader che alza la bandiera contro l’ “imperialismo capitalista”, pertanto Maduro gode di insperabili tutele politiche in tutta America Latina. Non fa eccezione il Sindacato, che nella sua articolazione continentale non ha esitato a schierare tutto il movimento dei lavoratori contro il “golpe” che ha esautorato Lula e Dilma in Brasile, ma non riesce ad esprimersi con la stessa chiarezza sul Venezuela. È per questo che, per rompere il silenzio e nella fedeltà ai propri principi, la Cisl e la Cfdt francese hanno alzato la voce nelle scorse settimane, chiedendo al movimento sindacale internazionale quanto meno di sostenere i Sindacati venezuelani affiliati, le cui analisi e le cui posizioni di netta critica al regime “chavista” sono rimaste a lungo inascoltate.
Nel prossimo consiglio generale dell’Ituc a Bruxelles finalmente Carlos Navarro, Presidente di Asi e José Elias Torres, Segretario Generale della Ctv, prenderanno la parola e si aprirà un dibattito, speriamo fecondo, nella comunità sindacale internazionale.

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