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Puglia. Solazzo (Cisl): “Albini e Cemitaly. Si ponga freno alla desertificazione di Taranto”

Pubblicato il 22 Lug, 2021

L’esito avverso e pressoché conclusivo che sembra accomunare le vertenze Albini e Cemitaly, ancora una volta dà senso al grido di allarme sindacale, inascoltato, sia dalle massime Istituzioni nazionali sia da quella regionale, circa l’inesorabile desertificazione industriale in atto nel Mezzogiorno. La Cisl Taranto Brindisi, insieme con le Federazioni che associano lavoratrici e lavoratori diretti e indiretti delle suddette realtà produttive, proseguirà nel rivendicare la ricerca di soluzioni che evitino licenziamenti e non depauperino, più di quanto stia già accadendo, un grande patrimonio di professionalità e di competenze acquisite e di infrastrutture e/o opifici che hanno implementato il Pil del territorio e del Paese, mentre oggi rischiano il degrado e costi ambientali aggiuntivi.
L’esito della lunga vertenza riguardante i 130 lavoratori dell’ex progetto Verde Amico è la testimonianza che confronti costruttivi, progettualità e volontà delle Parti, portano sempre a una soluzione positiva. Infatti, con il contributo del Governo, tramite la Ministra Carfagna, della Regione e del Comune di Taranto si è ridata speranza di futuro ai lavoratori, i quali saranno impegnati in un ulteriore progetto grazie ad un’anticipazione sui FSC di 6 ML di euro che lo stesso Governo erogherà alla Regione.
Stessi principi dovrebbero caratterizzare le vertenze di Cemitaly e Albini.
La ex Cementir Italia SpA – con una storia produttiva lunga 60 anni e dal 2018 Cemitaly – cinque anni addietro solo a Taranto, dichiarata area di crisi complessa, aderì alla possibilità di far ricorso, per 51 dipendenti in esubero strutturale, alla c.i.g.s. previo accordo con la Regione Puglia. Tutto vano, a seguire, considerati gli esiti finali.
Ad aggravare una vertenza già allora complessa, strettamente correlata alle sorti dello stabilimento ex Ilva ed alla chiusura avvenuta di tre forni, c’era anche il futuro occupazionale di 11 dipendenti della Pulisan, titolare di appalto presso il cementificio per le pulizie industriali, in quanto né Ministero del lavoro né la task force pugliese per l’occupazione intesero mettere a verbale il riconoscimento della loro pari dignità con i lavoratori edili, benché operanti anch’essi in un territorio riconosciuto area industriale di crisi complessa ma senza poter fruire della cigs. Il management ex Cementir, peraltro, non elaborò mai un piano industriale, sottraendosi sempre al confronto con i sindacati e con le Istituzioni del territorio, venendo meno persino all’impegno ufficialmente assunto di procedere al revamping dello sito ionico con un proprio investimento di 144 milioni, cui si sarebbe sommata la disponibilità della Regione Puglia ad erogare 20 milioni a fondo perduto ed il finanziamento dell’eventuale riqualificazione professionale dei dipendenti.
Come sindacato non possiamo assecondare scelte aziendali tese solo all’abbandono del territorio e dei lavoratori in un periodo in cui il lavoro va creato e non soppresso.
Riutilizzo della imponente sede della Cemitaly, bonifiche della zona interessata, formazione e riqualificazione del personale, coinvolgendo Regione ed Enti bilaterali (Formedil), con un periodo di accompagnamento, anche attraverso gli ammortizzatori sociali, sono alternative che proponiamo per la salvaguardia delle professionalità e del reddito delle maestranze.
Quanto al Cotonificio Albini S.p.A. un accordo sottoscritto a fine 2003 propose l’area ionica come territorio del Mezzogiorno che intendeva confermarsi in controtendenza nel Paese, grazie all’incontro virtuoso tra gli incentivi statali e la disponibilità del sindacato confederale ad attrarre investimenti per creare sviluppo ed occupazione aggiuntiva. Tutto ciò in un quadro economico ed occupazionale di grande difficoltà, anche allora, reso vulnerabile, oltretutto, da sofferenze economiche e produttive che interessavano piccola e media impresa e con continui attacchi ai livelli occupazionali.
L’accordo con Albini, dunque, per un nuovo insediamento industriale a Mottola, aggiuntivo rispetto alle potenzialità nazionali dello stesso Gruppo che era all’epoca accreditato di 1200 dipendenti distribuiti in cinque stabilimenti in Italia, si interpretò come una delle ripartenze favorevoli e strutturali che interrompevano il circuito negativo in cui era da tempo come impantanato il Sud e questo territorio in particolare.
La prima grande novità di tale investimento fu la sottoscrizione di un accordo sindacale, che scommetteva sulle relazioni sociali ed assumeva le procedure di verifica e di confronto periodico come metodo di relazioni concertate. Lo stesso investimento, peraltro, possedeva il valore aggiunto di riguardare una nicchia produttiva di alta qualità, ovvero tessuti per camicie, per un mercato nazionale e internazionale; e l’Azienda bergamasca decise di effettuarlo pur nella incertezza della erogazione da parte della Regione Puglia dei finanziamenti mirati alla formazione. La Cisl territoriale da tempo auspicava l’affermazione qui di modelli produttivi su base distrettuale puntando, nella fattispecie, sulla vocazione del tessile e abbigliamento; ecco, allora, che il nuovo insediamento a Mottola promuoveva in tal senso un contributo ulteriore, che si affiancava agli altri già esistenti a Castellaneta, a Ginosa, a Martina Franca ecc.
Dunque 110 lavoratori trovarono occupazione con un percorso di stabilizzazione a tempo indeterminato e si concordò la massima utilizzazione degli impianti con la copertura totale delle 24h, con la definizione dei tempi di permanenza negli inquadramenti professionali di tutti i lavoratori assunti dal bacino della provincia ionica, previa verifica delle singole qualifiche ed una moratoria contrattuale aziendale coincidente con la fase di specializzazione operativa. Fu quello un grosso contributo sindacale ad interventi strutturali in questo territorio che si voleva rendere sempre più appetibile, con una premialità a favore delle aziende del Nord che localizzassero le proprie produzioni nel Mezzogiorno, così contribuendo decisamente all’avvio concreto del recupero del divario tra il Nord e il Sud. L’incontro tra esigenza dell’impresa e ruolo sociale del sindacato si confermarono, a nostro giudizio, la vera cartina di tornasole di una inversione di tendenza condivisa e corresponsabile a favore del Mezzogiorno.
Ma, a ben guardare, è stata l’assenza, almeno negli ultimi venti anni, di una coerente visione di politica industriale ed infrastrutturale nel Paese ad avere determinato gli esiti finali delle due vertenze citate e non solo di esse, in uno con le conseguenze sociali, dal Sud al Nord, tornate oggi prepotentemente alla ribalta della cronaca quotidiana. Quella di Albini, al pari di quella di Cemitaly, deve richiamare la responsabilità delle istituzioni nazionali, regionali e locali, con la disponibilità a soluzioni che taluni rappresentanti istituzionali dichiararono di voler contribuire, facendo riferimento anche a risorse regionali, in un sit-in che come Cisl insieme alla nostra Federazione Femca Cisl e con le altre OO.SS di categoria, tenemmo il giorno di Pasqua davanti alla fabbrica.
Quello del tessile, del calzaturiero e dei pellami, è vero che risulta settore più in sofferenza ma è anche una eccellenza del Made in Italy che si sta rilanciando anche in questo periodo post emergenziale sanitario. Perciò richiamiamo l’attenzione di quanti hanno responsabilità di governo a riprendere un percorso che possa ridare speranza di futuro alle lavoratrici e ai lavoratori della fabbrica di Albini, certi che con risorse dei Fondi europei e dei Fondi strutturali una soluzione produttiva potrebbe realizzarsi. Non diversamente dalla realtà produttiva di Cemitaly.
Volontà, progettualità e disponibilità istituzionali e delle Parti sociali e imprenditoriali possono dimostrarsi la strada giusta per restituire, a tutte le lavoratrici ed ai lavoratori coinvolti, il diritto al lavoro.

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