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“Il Governo riduca l’Iva su pane e latte” – Intervista su Huffingtonpost.it

Pubblicato il 5 Giu, 2022

di  Giuseppe Colombo


La proposta del segretario della Cisl: taglio da estendere a tutti i beni di largo consumo. “Non sono d’accordo con Landini sulla patrimoniale: si rischia di tassare chi le tasse le ha già pagate”. Salario minimo? “Non va vincolato ad una cifra, seguo con interesse la proposta del ministro Orlando”
TRENTO – A maggio, come spiegano i dati dell’Istat, l’inflazione è tornata ad accelerare dopo il rallentamento di aprile: +0,9% su base mensile e soprattutto +6,9% rispetto a un anno fa. Ma non è più solo un’inflazione da gas. Gli aumenti si sono fatti più forti anche per il carrello della spesa: i prezzi hanno toccato livelli che non si vedevano da 36 anni. Il pane, la pasta e altri beni alimentari costano molto di più. E questo significa che si sta allargando l’erosione del potere d’acquisto dei salari e delle pensioni. Il Governo e le parti sociali dibattono sulla risposta – taglio del cuneo fiscale e detassazione degli aumenti – ma l’inflazione che si sente al supermercato spinge anche un intervento più mirato e immediato. È quello che chiede Luigi Sbarra, il segretario generale della Cisl, che dal Festival dell’economia di Trento propone una misura per mettere sotto controllo i prezzi: “Il governo riduca l’Iva sui beni alimentari di prima necessità come il pane, il latte e la pasta e su quelli di largo consumo, oltre a rinnovare tutti i contratti scaduti nel privato e nel pubblico, tagliare le tasse ai lavoratori e ai pensionati e detassare i frutti della contrattazione”. 

Segretario, in questi giorni è un tripudio di soluzioni per proteggere i salari dall’inflazione. Per lei qual è l’intervento prioritario?
Bisogna ridurre l’Iva sul carrello della spesa per le fasce deboli. È una misura fortemente necessaria e di sostegno alla salvaguardia e alla tutela delle retribuzioni dei lavoratori e degli assegni pensionistici. 

Quali prodotti dovrebbero essere interessati da un taglio dell’Iva?
I generi di prima necessità, i beni alimentari. E quelli di più largo consumo, necessari alla vita delle famiglie. Non penso assolutamente né allo champagne e né al caviale, né ai beni di lusso. Dobbiamo sostenere la ripartenza dei consumi guardando a chi oggi è più in difficoltà.

La sua è una proposta da sottoporre all’attenzione del governo? 
Assolutamente, dobbiamo aprire una discussione anche sull’Iva. Il tema è che il governo deve attivare un’iniziativa per mettere sotto controllo prezzi e tariffe, diversamente l’inflazione continuerà a galoppare. Più in generale serve un confronto su una nuova idea di politica dei redditi che aiuti le persone a fronteggiare l’emergenza che stiamo vivendo.

Un intervento sull’Iva si va ad aggiungere a una lista di soluzioni già lunga. Dentro ci sono il taglio del cuneo e la detassazione degli aumenti. Sono tutti interventi che hanno un costo e di soldi ce ne sono pochi. Come si fa a finanziare tutto?

Le risorse si possono trovare se c’è volontà politica.

Come?
Si alzi l’azione di contrasto sull’evasione e sull’elusione fiscale e si destini tutto il ricavato al taglio delle tasse di lavoratori, pensionati e famiglie. Si può anche aumentare la tassazione degli extraprofitti delle grandi aziende energetiche e introdurre un’ulteriore forma di tassazione sulle grandi multinazionali dell’economia digitale e della logistica. Le risorse si possono trovare utilizzando questi spazi e poi si possono redistribuire in favore delle fasce deboli.

Anche facendo ricorso al deficit?
Sì. Lo scostamento di bilancio va preso in considerazione. Oggi i lavoratori e i pensionati sono stressati e bombardati dagli aumenti dei prezzi dell’energia, dei beni alimentari e della fiammata inflazionistica. Questa è la grande priorità, non il salario minimo. Lavoriamo per i salari massimi.

Il segretario della Cgil Landini ha proposto di tassare le rendite finanziarie. È d’accordo?
Quello delle rendite finanziarie è un argomento ormai consumato dagli anni. Anche la Cisl ha prodotto già anni fa una proposta di legge di iniziativa popolare sul fisco che, fra gli altri argomenti, invocava una diversa tassazione delle rendite finanziarie. Ma è un tema da affrontare a livello almeno europeo, altrimenti l’effetto più probabile sarà quello di assistere ad una fuga di capitali. La regolamentazione dei mercati finanziari è fondamentale per una nuova economia mondiale e con essa quella della fiscalità. Ad oggi però dobbiamo essere realisti e non possiamo pensare che produca risultati immediati che occorrono a tamponare l’emergenza. Altro è invece se, come mi pare di capire, si paventa una patrimoniale.

Non va bene?

Bisogna stare attenti ad andare in questa direzione. Gli immobili sono già molto tassati tra Imu e Tari. I patrimoni liquidi sono in larga misura piccolo e medio risparmio precauzionale delle famiglie. Nel risparmio mobiliare ci sono molti titoli di Stato e si rischia una fuga. I grandi patrimoni spesso sono altrove, si rischia di tassare chi le tasse le ha già pagate. E poi questi interventi una tantum non aiutano: dobbiamo programmare interventi radicali, strutturali. È la ragione per la quale diciamo al governo di aprire il confronto sulla delega fiscale per negoziare i contenuti dei decreti legislativi.

Le decisioni arriveranno con la legge di bilancio. Il ministro Giorgetti ha parlato di un passaggio rischioso, lei ha messo la volontà politica come condizione per trovare i soldi. Che atteggiamento registra tra le forze politiche?
Da parte dei partiti e dei gruppi parlamentari vedo tentativi di piantare bandierine. Dobbiamo eliminare il rischio di un Vietnam elettorale che dura un anno. La nostra idea è lavorare e costruire insieme, individuiamo le priorità e il metodo.

A proposito di metodo, ancora non siete stati convocati a palazzo Chigi. Pensa che il modello Ciampi del ’93 possa funzionare anche oggi?
La cornice non può che essere quella di un grande Patto sociale, di un contratto sociale che aiuti il Paese a risollevarsi insieme dalle macerie dell’emergenza sanitaria e dalla più grave crisi economico-sociale che si ricordi dal Dopoguerra ad oggi, ma anche per fronteggiare le ricadute e gli effetti della guerra in Ucraina. Bisogna salvaguardare e mantenere la coesione sociale, contrastare le diseguaglianze, unire il Paese e lanciare una grande stagione di investimenti pubblici e privati per la crescita e per il lavoro, accelerando il Pnrr con una governance partecipata.

Una leva può essere anche il salario minimo?
Stiamo seguendo con molta attenzione la nuova proposta del ministro Orlando che si allontana dallo schema del salario minimo con la fissazione della cifra. Siamo disponibili ad affrontare nel merito questa impostazione di estendere e rafforzare i trattamenti economici complessivi dei contratti maggiormente applicati nei settori di riferimento. L’obiettivo deve essere quello di coprire quel 10% di casi in cui i lavoratori non hanno un contratto o un salario di riferimento.

Perché il salario minimo legato a una cifra non va bene? In Germania è stato appena approvato l’aumento a dodici euro all’ora. 
Parlare di salario minimo legato a una cifra, ad esempio a nove euro, significa trascurare il fatto che la retribuzione complessiva della persona nel mercato del lavoro non è fatta solo di compenso orario, ma di altri istituti contrattuali che si aggiungono. Bisogna calcolare il Tfr, le ferie, le maggiorazioni, il welfare contrattuale, la previdenza complementare, la sanità integrativa: sono tutti istituti che solo il contratto riconosce, non la legge. In Germania l’intervento si è reso necessario perché il tasso di copertura contrattuale era la metà di quello italiano. E l’economia tedesca, purtroppo, non è nemmeno paragonabile a quella italiana. Forse dovremmo parlare di questo quando facciamo raffronti. 

Quindi per lei la strada è far diventare il trattamento economico complessivo il salario minimo di riferimento per i lavoratori di un determinato settore?
Sì e mi pare che anche il governo, attraverso Orlando, abbia capito l’interesse di allontanarsi dallo schema salario minimo-nove euro che darebbe la stura alle aziende di uscire dall’applicazione dei contratti, spingendo verso il basso le retribuzioni. Bisogna invece ragionare sulla necessità di estendere e rafforzare i minimi contrattuali dei contratti maggiormente applicati nei settori di riferimento. In questo Paese bisogna fare politiche vere di crescita salariale”.

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