1. CISL
  2. /
  3. Notizie
  4. /
  5. Notizie > Lavoro
  6. /
  7. Notizie > Lavoro >...
  8. /
  9. Salario minimo: audizione informale...

Salario minimo: audizione informale dei rappresentanti di Cgil, Cisl, Uil presso la Commissione Lavoro della Camera. La memoria della Cisl

Commissione XI (Lavoro pubblico e privato) della Camera dei deputati Mercoledì 12 aprile 2023. Audizione informale di rappresentanti di CGIL, CISL, UIL e UGL, nell’ambito dell’esame delle proposte di legge C. 141 Fratoianni, MariC. 210 Serracchiani, Orlando, SarracinoC. 216 Laus, C. 306 Conte, Aiello, Barzotti, Carotenuto, TucciC. 432 Orlando, recanti disposizioni in materia di giusta retribuzione e salario minimo.

Memoria CISL
Le proposte di legge oggetto della audizione hanno numerosi tratti in comune che ci consentono un’analisi congiunta e trasversale.
Tutte le proposte di intervento legislativo agiscono con l’intento di dare piena attuazione all’art.36 della Costituzione, individuando, con diverse modalità e entità, una soglia minima per la definizione del concetto di sufficienza.
Si tratta di un compito che storicamente è stato assegnato nel nostro Paese alla contrattazione collettiva nazionale di lavoro settoriale, anche per la definizione, indubbiamente più articolata, del concetto di proporzionalità, anch’esso indicato dallo stesso art. 36.
La CISL sostiene, fin dalla sua costituzione, il primato della contrattazione, attraverso la quale le tutele dei lavoratori possono essere arricchite da diritti e ulteriori prerogative, anche di carattere economico, che si aggiungono allo stipendio, completando l’insieme dei trattamenti che compongono una giusta remunerazione del lavoro e ne garantiscono la dignità.
La posizione di contrarietà all’interferenza della legge con il sistema contrattuale che la CISL ha da sempre affermato trova conforto nella recente direttiva europea sui salari minimi adeguati che considera la contrattazione il miglior strumento per la tutela salariale e sociale dei lavoratori, obbliga chi non la ha o non l’ha ampiamente sviluppata a rafforzarla, ma non ritiene il salario minimo legale necessario per chi, invece, come l’Italia, la ha ampiamente diffusa.
Anche secondo la direttiva europea, quindi, l’adeguatezza dei salari è meglio determinata quando a farlo è la contrattazione.
La CISL, dunque, condivide gli obiettivi generali e le misure che l’Unione Europea si è data con la direttiva sui salari minimi adeguati e ne sostiene le motivazioni, convinta che essa costituirà una pietra miliare per affrontare il problema dei bassi salari, in particolare nei Paesi dove la contrattazione è scarsamente diffusa, e garantire i diritti sindacali e le giuste tutele ai lavoratori di tutta l’Europa.
Ciò premesso, rispetto alle proposte di legge in esame esprimiamo la nostra condivisione solo per gli articoli con cui si attribuisce ai contratti leader di ogni settore il compito di fissare i minimi salariali dei settori stessi. Si tratta di un’impostazione già condivisa unitariamente da CISL, CGIL e UIL con il precedente Governo e in direzione della quale riteniamo che si potrebbe procedere rapidamente e senza ulteriori interferenze, proprio raccogliendo l’input politico della direttiva europea a sostenere la contrattazione. Per la determinazione del contratto leader, per altro, non solo si potrebbe far agevolmente ricorso all’identificazione di quelli sottoscritti dalle associazioni di rappresentanza dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, ma, ancor più facilmente, si potrebbe far riferimento alla rilevazione dell’applicazione dei contratti sulla base dei dati forniti dall’INPS, attraverso Uniemens, relativi al numero delle imprese che applicano un contratto e il numero dei lavoratori a cui viene applicato.
Le proposte di legge in esame, però, vanno ben oltre la definizione di salario minimo di settore, come sopra identificato, e propongono di fissare comunque un importo minimo orario al di sotto del quale non sia possibile lavorare: alcune proposte individuano questa necessità solo per i settori che vengono genericamente indicati come “non coperti da contrattazione”, attribuendo il compito di fissarlo a commissioni variamente costituite, altre invece ritengono che l’importo minimo debba costituire la soglia sotto la quale la contrattazione non possa scendere. La contrattazione, quindi, verrebbe, di fatto, privata dell’autonomia nel determinare la soglia minima stessa.
Fa riflettere l’affanno con cui le proposte si inseguono, con rilanci da mezzo euro tra una proposta l’altra, evidentemente costruite più che con l’ambizione di definire, con cognizione di causa, la soglia di dignità, con quella di apparire come il proponente più generoso. È anche bizzarro che, trattandosi di stabilire la soglia di dignità al di sotto della quale la vita sarebbe insostenibile, si preferisca utilizzare un’importo lordo, mentre, come è ovvio, la capacità di spesa di una persona e quindi la sua possibilità di sostentarsi dipendono dalla disponibilità netta. È come se i legislatori volessero ignorare l’effetto che maggiori o minori oneri sociali e fiscali possono produrre sulle retribuzioni, lasciando ad altre funzioni pubbliche la responsabilità di consentire l’effettiva congruità delle cifre da loro scelte.
In alcuni dei disegni di legge emerge inoltre la volontà di regolare, oltre al salario minimo, anche i criteri di misurazione della rappresentanza.
Mentre, come detto, giudichiamo positivamente i disegni di legge per le parti che attribuiscono alla contrattazione il compito di stabilire i minimi complessivi di settore, riteniamo profondamente sbagliato e incoerente con il nostro sistema di relazioni sociali e industriali agire con l’individuazione, in qualsiasi forma, di soglie minime legali e di criteri di determinazione della rappresentanza diversi da quelli liberamente e autonomamente definiti dalle parti sociali.
Il salario minimo legale rischia infatti di offrirsi come alternativa al sistema di relazioni industriali e alla contrattazione collettiva nazionale, senza risolvere le vere criticità presenti nel nostro Paese, che sono la povertà salariale derivante da lavori poco qualificati, discontinui e ad orario ridotto, una struttura produttiva che vede un eccesso di microimprese, con bassissima produttività, assenza di innovazione e investimenti, bassa qualità lavoro, elevato tasso di opacità, il basso tasso di occupazione femminile, e, infine, una larga diffusione di lavoro nero e irregolare.
Anche i riferimenti a settori scoperti dalla contrattazione collettiva nel settore privato, che troviamo in tutti i ddl in esame non sono affatto chiari. La contrattazione esistente copre praticamente tutti i settori. La stessa giurisprudenza ha, ormai in via continuativa, affermato che ad ogni lavoratore subordinato possano essere applicati i trattamenti economici complessivi minimi stabiliti da contratti collettivi nazionali di settori affini o equivalenti a quelli per cui prestano la propria attività, quale parametro esterno di commisurazione.
Ammesso, quindi, di poter individuare settori per i quali la contrattazione non sia ancora stata in grado di dare una copertura, le soluzioni indicate dai disegni di legge sembrerebbero orientate a escludere i lavoratori degli stessi dalla possibilità di avere un CCNL, riservandogli solamente una previsione salariale minima. Altro sarebbe se il legislatore intervenisse per obbligare le parti a individuare contratti che, oltre a definire le tabelle salariali, si applicassero anche alle altre materie normalmente regolate dalla contrattazione nazionale. In questo caso la legge agirebbe come sostegno alla contrattazione ponendo le basi per una tutela complessiva del rapporto di lavoro nei settori in cui ancora essa non si fosse sviluppata, ma nei casi in esame sembra invece che il legislatore preferisca trovare scorciatoie elementari, non curandosi della complessità che un rapporto di lavoro porta con sé.
Il rischio che vediamo nella definizione di un parametro minimo legale per la retribuzione oraria è inoltre quello di un avanzamento del processo di “aziendalizzazione” dei rapporti di lavoro, slegati dalla contrattazione nazionale. La tentazione di molte aziende di individualizzare i rapporti di lavoro e di gestirli con propri regolamenti interni è infatti sempre più diffusa. Si tratta di una tendenza che disarticolerebbe il mondo del lavoro a parità di mansioni svolte e che sarebbe ampiamente favorita da una legge che dovesse stabilire come unico obbligo dei datori di lavoro quello di garantire una soglia minima di retribuzione.
Paradossalmente, anche il tentativo di evitare la proliferazione dei contratti collettivi nazionali già in atto da anni, ed anche di quelli cosiddetti “pirata”, sottoscritti da organizzazioni sindacali e datoriali prive di rappresentatività, potrebbe raggiungere un risultato inverso. Per le organizzazioni firmatarie di questi contratti, infatti, sarebbe sufficiente non debordare dalla soglia salariale minima legale per avere piena legittimità del contratto stipulato. Come sappiamo però in un contratto i contenuti che arricchiscono le tutele, i diritti, le prospettive professionali e anche il salario dei lavoratori sono innumerevoli: un contratto che si limitasse a rispettare i minimi salariali, cancellando decenni di conquiste negoziate dai sindacati maggiormente rappresentativi, stabilirebbe un arretramento sia in termini di civiltà del lavoro sia in termini di remunerazione reale dello stesso.
Risulta peraltro irrealistico immaginare che una soglia più elevata stabilita dalla legge per il salario minimo possa tradursi immediatamente in un aumento delle retribuzioni, soprattutto in aziende in cui è richiesta bassa specializzazione del lavoro e in cui si annidano maggiormente i fenomeni di irregolarità. Anche in paesi più attenti del nostro a impedire fenomeni di illegalità, come la Germania, l’introduzione del salario minimo legale ha coinciso con la riduzione di orario lavorato (o dichiarato) da parte dei beneficiari del provvedimento e/o con la sottrazione di voci aggiuntive allo stipendio (premi, straordinari o altro) e, comunque, ha coinciso con un calo o una stagnazione del tasso di copertura contrattuale (in Germania al di sotto del 50%) che in Italia (come in quasi tutti i Paesi privi di norme sul salario minimo legale) continua invece ad essere alto e stabile.
È singolare che i firmatari dei ddl in esame non tengano conto di queste rilevazioni, sapendo che in Italia il lavoro sommerso occupa già quasi 4 milioni di lavoratori, senza peraltro che il sistema legislativo se ne preoccupi, per esempio, facendo rientrare tra i reati previsti dal codice penale l’assunzione di lavoratori in modo irregolare. Consideriamo in sostanza paradossale che i legislatori si affannino a cercare di porre confini alla contrattazione e non si curino di penalizzare una piaga come quella del lavoro nero, che è il vero e più consistente ostacolo all’emancipazione del lavoro nel nostro Paese.
È poi opportuno fare un richiamo ad un minimo di realismo. L’approccio che viene dato anche nel dibattito pubblico dai promotori del salario minimo sembra ignorare un tema che pure è stato lungamente affrontato dagli anni 60/70 del secolo scorso: il costo del lavoro non è una variabile indipendente.
Chiunque avesse dedicato una parte della propria vita lavorativa all’esercizio della contrattazione saprebbe infatti che ad un tavolo negoziale le due parti si confrontano innanzitutto per stabilire quale sia la massa di risorse disponibile per essere stanziata a favore degli aumenti contrattuali. Si tratta di una fase del negoziato in cui evidentemente si
contrappongono interessi diversi che alla fine, devono realizzare un accordo. Quando l’accordo non si realizza o tarda a realizzarsi i ritardi che si cumulano nel rinnovo del contratto costituiscono un danno per i lavoratori. Solo una volta stabilita la massa disponibile le parti possono deciderne la distribuzione. Va da sé che la legge, introducendo una soglia al minimo retributivo, da applicarsi a contratti che hanno diversi e progressivi livelli retributivi, oltre ad altre numerose previsioni a titolo oneroso, non aumenterebbe le disponibilità di risorse con cui realizzare i rinnovi contrattuali, bensì si limiterebbe a porre dei vincoli alla distribuzione delle risorse che le parti fossero state in grado di pattuire. All’interno di questa dinamica un eventuale aumento per legge delle soglie minime di retribuzione tabellare non potrebbe che avere quindi l’effetto di diminuire le risorse residualmente disponibili per il progresso dei livelli retributivi più elevati o di altre voci del contratto economicamente rilevanti. Anche nella successiva vita aziendale si potrebbero probabilmente osservare fenomeni di disapplicazione ovvero di applicazione restrittiva delle norme contrattuali da parte delle imprese, per esempio attraverso il rallentamento o la sterilizzazione delle carriere. Un’eventuale clausola di salvaguardia sui migliori trattamenti potrebbe riguardare solo chi quei trattamenti li avesse già conseguiti (e anche questi casi non sarebbero esclusi dalla possibilità di rallentamento o di sospensione della dinamica incrementale, con perdita nel tempo di valore reale) e infine non potrebbe riguardare trattamenti naturalmente sottoposti a variabilità (premi, lavoro straordinario, incentivi, ecc.)
Per quanto riguarda gli interventi a contrasto della mancata puntualità dei rinnovi contrattuali, particolarmente onerosa per i lavoratori soprattutto in contesti storici caratterizzati da forte dinamica inflativa, desta perplessità la proposta di indicizzazione automatica delle retribuzioni per i contratti scaduti da tempo. Siamo d’accordo che l’ultrattività dei contratti oltre la loro scadenza non sia sufficiente a garantire trattamenti sufficienti nel tempo, in assenza di rinnovo, e che sia quindi necessario trovare modalità per evitare i periodi di vacanza contrattuale, ma riteniamo altresì che sottrarre dal negoziato per il rinnovo dei contratti stessi la parte salariale, che nelle previsioni proposte sarebbe già adeguata automaticamente, significhi depotenziare la possibilità vertenziale dei sindacati e quindi, di fatto, danneggiare le loro possibilità di conquistare un buon rinnovo complessivo. La previsione di adeguamento automatico all’andamento dei prezzi misurato dall’Istat, oltre un determinato ritardo, indurrebbe le aziende ad attendere tutto il tempo disponibile prima di dare corso alla trattativa per il rinnovo, ritardando il più possibile l’aumento dei costi che una trattativa più puntuale anticiperebbe. Agirebbe, insomma, di fatto, come una vera e propria proroga, senza penale, della scadenza dei contratti. Al momento poi di far partire la trattativa agirebbe banalmente come tetto alle possibilità di rivendicazione, poiché le aziende non avrebbero alcun interesse a gestire un rinnovo più articolato e più oneroso, potendo far riferimento a leggi che avessero fissato l’onere con cui poter considerare adempiuto il dovere dell’impresa.
La norma, insomma, tutelerebbe più le imprese che i lavoratori, consentendo alle prime sia di programmare un “legittimo ritardo” nei rinnovi dei contratti, sia di assicurarsi un tetto al costo dei rinnovi stessi. Ovvero consentendo alle stesse imprese di non rinnovare affatto i contratti, assicurandosi l’immunità attraverso il mero adeguamento salariale automatico.
Eppure è all’attenzione di tutti come gli interventi necessari sul lavoro siano molteplici e in continua evoluzione, dalla formazione agli orari, dall’organizzazione alla salute e sicurezza, dal welfare alla produttività, non potendo esaurirsi con la mera fissazione di una paga oraria.
Per poter comprendere gli intenti della norma viene quindi da supporre che i legislatori pensino che i lunghi ritardi nei rinnovi contrattuali non derivino dall’indisponibilità delle imprese, ma siano dovuti a scarso interesse, a disattenzione o ad eccessive pretese dei sindacati…
Anche in questo caso noi riteniamo che la legge, anziché sostituirsi, parzialmente e con colpevole approssimazione, alla contrattazione, dovrebbe occuparsi di incentivarla, per esempio legando il prelievo fiscale a carico delle imprese e dei loro soci a rating di sostenibilità sociale che tengano conto della qualità e della puntualità della contrattazione applicata.
La CISL, anche a questo scopo, da tempo chiede l’istituzione di strutture di vigilanza sulla sostenibilità sociale delle imprese (un’authority o un garante) e di una tassazione differenziata di queste ultime sulla base di “pagelle” che valutano la responsabilità sociale delle imprese stesse.
In questa direzione, seppure in modo non ben definito, sembra volersi muovere la previsione inserita nel disegno di legge Orlando, che, appunto, differenziandosi da altri, propone generici interventi di incentivazione e penalizzazione finalizzati ad affrontare la questione delle lunghe fasi di mancato rinnovo dei contratti collettivi nazionali, in particolare in alcuni settori dei servizi: un’impostazione che accogliamo come un positivo stimolo all’individuazione di soluzioni più strutturate che pongano la questione della sostenibilità sociale delle imprese al centro di un sistema di valutazione che tenga conto dell’insieme dei comportamenti che le imprese adottano nella regolazione dei rapporti di lavoro con i propri dipendenti, non limitandosi, quindi, solo alla questione della puntualità dei rinnovi contrattuali, ma ponendo attenzione anche alla gestione dei contratti stessi, per esempio in materia di corretta applicazione delle nome, di adozione di pratiche partecipative, di qualità e quantità della formazione erogata, di sviluppo delle carriere, di qualità dei contratti di lavoro utilizzati con particolare attenzione alla loro stabilità, di sviluppo della contrattazione aziendale di secondo livello e di meccanismi di riconoscimento della produttività ai lavoratori.
Paradigmatica delle contraddizioni che i disegni di legge in esame incorporano, appare la proposta di regolamentare a parte la “dignità salariale” dei lavoratori domestici. Il legislatore in questo caso sembra finalmente ammettere che la compatibilità economica tra costo del lavoro e disponibilità del datore sia condizione necessaria alla costruzione dei trattamenti salariali. E lo fa solo per le famiglie!
Nel farlo, però, contraddice implicitamente i principi costituzionali a cui dice di volersi ispirare. Se la ratio della legge è quella di stabilire la soglia minima al di sotto della quale la retribuzione non può garantire la vita dignitosa, ignorando le obiezioni, effettivamente non sempre motivate, delle aziende sulla compatibilità economica del costo del lavoro, non si capisce come la vita del personale domestico possa essere considerata dignitosa anche ad un livello inferiore rispetto a quella di altri lavoratori. Peraltro, anche le obiezioni delle famiglie sulla possibilità di sostenere costi maggiori non sempre sono motivate da condizioni di reale difficoltà.
Non si capisce quindi se per i legislatori il personale domestico sia fatto da persone per le quali la vita possa essere un po’ meno dignitosa che per gli altri, oppure se la questione attenga al potere di persuasione delle famiglie (sicuramente più numerose delle imprese e anche dei prestatori di lavoro domestico).
È questa invero una contraddizione che affonda le radici nel tempo, essendo il contratto dei lavoratori domestici da sempre sottoscritto dalle rappresentanze sindacali in sede ministeriale.
Un contratto che da sempre adotta tabelle salariali molto basse che però sono sempre state legittimate dai diversi Ministri del Lavoro, anche quelli particolarmente noti per essere autori di proposte di legge sul salario minimo che superavano abbondantemente i minimi salariali da essi stessi certificati per il lavoro domestico.
La sensibilità che gli odierni legislatori dimostrano verso gli interessi delle famiglie dovrebbe aiutarli a comprendere come, diversamente dai loro intenti generali, non sia facile determinare un salario minimo legale senza imbattersi in situazioni in cui esso impatti sulla sostenibilità per il datore di lavoro e senza che i datori di lavoro risolvano il problema aggirando le regole sulle assunzioni dei propri dipendenti. Non casualmente il lavoro domestico è uno dei principali serbatoi di lavoro irregolare del Paese e anche per questo un focus specifico potrebbe essere effettivamente utile.
La previsione di una fiscalità agevolata, sperimentale, per gli aumenti definiti dai rinnovi contrattuali è, invece, a nostro avviso da approfondire, in quanto, pur potendo essere uno strumento di facilitazione della contrattazione, sembra poco realistica per ciò che riguarda la modalità (come si scorporano gli aumenti dal resto dello stipendio? Creando elementi distinti della retribuzione decisamente poco convenienti per i lavoratori?) e potrebbe comportare diversi problemi sul piano tecnico nella costruzione delle diverse buste paga da parte del sostituto d’imposta. Oltre a ciò l’operazione avrebbe effetti regressivi dal punto di vista del prelievo fiscale, perché premierebbe maggiormente gli scaglioni di reddito più elevati; favorirebbe i lavoratori in modo differente e casuale, premiando i percettori di aumenti e penalizzando ulteriormente quelli meno fortunati; comporterebbe un deficit di equità orizzontale (lo stesso stipendio maturato in anni diversi ovvero per motivazioni diverse anche nello stesso anno – per esempio uno con aumenti per promozione o per anzianità e l’altro con aumenti contrattuali – sarebbe tassato diversamente); ponendo dei limiti temporali per poter usufruire della detassazione, introdurrebbe nelle dinamiche negoziali logiche di spartizione del vantaggio fiscale tra lavoratori e imprese che, di fatto, diminuirebbe l’entità lorda degli aumenti possibili, con pregiudizio della retribuzione dei lavoratori a regime, cioè al momento del ripristino della tassazione ordinaria. Riteniamo che elementi di detassazione possano essere più equamente ed efficacemente introdotti attraverso, per esempio, l’alleggerimento delle tredicesime mensilità.
In un’ultima nota ci sia concessa un’osservazione polemica. Riteniamo assai contraddittoria la proliferazione di disegni di legge sul salario minimo da parte di Parlamentari della attuale minoranza che non avevano avuto la medesima verve creativa negli anni recenti in cui erano stati in maggioranza e in cui avrebbero potuto portare a definizione i loro progetti in Parlamento, anche concertandoli con le parti sociali. A questo proposito è stupefacente la contemporanea produzione di due disegni di legge, fra loro peraltro alternativi, a firma dell’ex Ministro del Lavoro, con il quale era stato in realtà condiviso un percorso per approdare ad una legge che valorizzasse pienamente la contrattazione ed il ruolo autonomo delle parti sociali nella determinazione dei salari, senza che nessuno dei due disegni presentati sia aderente alle scelte condivise in quel percorso, la cui mancata conclusione appare oggi dovuta, più che alla prematura fine della precedente legislatura, ad un preesistente deficit di volontà dello stesso ex Ministro, oggi sottoscrittore delle proposte divergenti.
Avendo illustrato i motivi della complessiva contrarietà della CISL ai disegni di legge in esame, fatti salvi alcuni dettagli in essi contenuti, concludiamo osservando come la stessa diversità di valutazioni che emerge, fra loro, dagli stessi disegni di legge sia dimostrativa della oggettiva impossibilità di ricondurre la vita dignitosa e la dignità del lavoro solo ad una soglia retributiva oraria, di per sé non in grado di dare risposte alla complessità della questione, che, invece, la contrattazione settoriale e quella di secondo livello possono regolare tempo per tempo e luogo per luogo, sicuramente con maggiore coerenza rispetto ai bisogni dei lavoratori ed alle possibilità delle imprese.
Al fine di illustrare più compiutamente il nostro pensiero sul tema, a carattere generale, alleghiamo a questa memoria anche una più ampia riflessione depositata negli atti di un recente convegno svoltosi presso l’Università di Pisa, nella quale trattiamo anche delle ragioni storiche, economiche e strutturali che sono alla base della bassa crescita salariale italiana.

Condividi